
Francesco Curzio, nato a Turi il 23 dicembre 1822 da Francesco. legale di Acquaviva (venuto a Turi a svolgere la sua professione, dove sarà decurione, consigliere comunale, per diversi anni) e dalla turese Celestina Giannini.
Ancora giovanissimo sarà definito dalla polizia borbonica: sovversivo, incendiario, scapestrato … «E tutto questo perché il Curzio nelle riunioni politiche clandestine parlava di equa ripartizione dei fondi demaniali ai contadini poveri, di lavoro e di giusto salario agli operai» (Dilio 1982). Faceva parte della Nuova Sparta la Societò carbonara di Turi.
Ai suoi occhi non sfuggiva la miserevole condizione in cui versava gran parte del popolo:
Perché, se tanti prodiga tesori suoi la terra,
continua poi fra gli uomini arde fraterna guerra?
S’abbia ciascun la fertile zolla che l’alimenti
(Curzio 1883).
E pare di vederlo aggirarsi per i nostri paesi, da Acquaviva a Turi, a Canneto, a Montrone, a Valenzano, a Bitonto, a Molfetta e gridare apertamente sulle pubbliche piazze:
È il pan di chi lo suda;
e ben la plebe che stenta in sulle glebe
può dire a quei che si sollazza in via:
è questa terra mia
(Curzio 1883)
Questi sono suoi versi. Perché Curzio era poeta. Poeta libero, come era uomo libero. I suoi versi sono lo specchio fedele di un momento storico eccezionale:
… Dalle stelle sublime verità,
nuda qual sei scendi,
m’infiamma il petto e fa che sia
la mia parola il tuo speglio fedele
(Curzio 1883)
Per conoscere la sua poesia bisogna leggere il volume Poesie edite ed inedite pubblicato a Firenze nel 1883. In esso sono raccolte le poesie scritte in 40 anni, recuperando le pubblicazioni precedenti: Canti nuovi, Lugano 1857 e Glorie e speranze, Firenze 1870; e versi apparsi sulle riviste letterarie dell’ epoca o inediti. Versi che scriveva nei rari momenti di pausa che la vita gli consentiva, perché fu soprattutto un uomo d’azione.
«Esigono le lettere animo riposato e tranquillo – scriveva nel 1870 – ed io non 1’ebbi mai, per le tumultuose vicende che accompagnarono la mia vita e per l’interesse altissimo che spiegai sempre per la causa nostra, alla quale ho tutto, tutto sagrificato … Né di ciò intendo farmi rimprovero, ché anzi son lieto, lietissimo di aver potuto così nobilmente spendere i giorni».
Poco più che ventenne, nel 1845, il suo canto cominciò a levarsi per la Patria:
o Patria mia, come tu sei caduta!
E questo è poco, ché nel tuo t’avvolgi obbrobrio,
inconscia, e l’occhio alla perduta vetta non volgi
(Curzio 1883)
«Giovanissimo, ma pieno di speranza, Curzio sognava un mondo diverso, fatto di uomini uniti per costruire il progresso e una società capace di utilizzare al meglio le tante risorse del mondo. Già allora egli andava col pensiero sì alla liberazione delle popolazioni meridionali dall’ oppressione borbonica, ma il grande progetto che auspicava altro non era che quello di Mazzini, un’Italia unita nell’Europa libera» (Dilio 1982).
E a quel grande progetto egli dedicò tutta la sua vita. Combatté sulle barricate a Napoli nel maggio del 1848 e il 2 luglio dello stesso anno prese parte, pur non invitato, alla “Dieta” di Bari, dove fu tra quei pochi (Del Drago, Laginestra … ) che volevano costituire un governo provvisorio e marciare verso la capitale. Per questi fatti sarà condannato a 19 anni di carcere. Ma aiutato da diversi amici, primo fra tutti il turese Cesare Giammaria, riuscirà a sfuggire e vivrà in esilio (Genova, Torino, Lugano) 12 anni, fino a quando, avutane notizia, parteciperà alla spedizione dei Mille con Garibaldi. Ebbe il grado di capitano di stato maggiore.
Nelle elezioni politiche per il Parlamento italiano fu eletto nel collegio di Acquaviva, di cui faceva parte anche Turi, nel 1862, nel 1865 e nel 1867. Nel 1866 tornò a combattere nel Trentino con Garibaldi, meritando per le insigni prove di coraggio la medaglia d’argento al valor militare.
Ritornerà a rappresentare la nostra terra al Parlamento nel 1884, per il collegio di Trani, dove fu eletto in sostituzione di Francesco De Sanctis, morto nel dicembre del 1883. Ma, a poco a poco, nel suo animo comincia a farsi strada la delusione. Sono tante le brutture e gli intrallazzi che lo circondano. Nel 1886, da Firenze, dove da anni viveva con la sua famiglia, scriverà al direttore del giornale “Il Progresso” di Bari: «Mi sarebbe stato meglio morire di una palla nemica in battaglia con l’entusiasmo di chi combatte per un alto principio, anziché assistere ad un sì miserando spettacolo, che segna la morte della moralità ed il punto più culminante dell’umana corruzione».
Dopo la stagione delle lotte, nella quale aveva dato tutto se stesso, senza nulla pretendere, approda alla preghiera:
Che più mi resta?
La robusta pianta rende
alla terra le ingiallite foglie,
innalza i rami supplicanti al cielo
(Curzio 1883)
Morirà a Firenze il 7 febbraio del 1901. Il “Corriere delle Puglie” dell’8 febbraio scrisse: «Si spegne con lui una delle più belle figure che ha dato al Risorgimento italiano la nostra terra ».
(Rino Valerio – vol. I “sulle tracce” – Centro Studi Storia e Cultura di Turi )
Dopo la condanna a 20 anni di carcere per aver partecipato ai moti del 1848, Curzio fuggì prima in Piemonte a Torino e poi Genova e poi si ritiro a Lugano, dove conobbe C. Cattaneo, collaborando alle sue pubblicazioni e dove ottenne una cattedra di letteratura italiana.
Nella spedizione dei Mille ebbe il grado di capitano di Stato maggiore e l’incarico di custodire la cassa. Più tardi, nel 1866, impugnò le armi con i garibaldini e, a Condino, ottenne la medaglia d’argento per insigni prove militari. Deputato nel collegio di Acquaviva delle F. fino all’ VIII legislazione, militò all’estrema sinistra. A Firenze fu eletto due volte nel Consiglio comunale. Appartenne al partito radicale e presiedette vari meeting per propugnare riforme liberali (Cfr. La Nazione, a XLIII, n. 39, Firenze 8-2-1901)
