La terra di Turi e i corpi feudali
Ancora oltre la metà del 700 l’abitato di Turi rimaneva cinto da mura munite di torri di solida costruzione, per la sicurezza degli abitanti, che occupavano fabbricati divisi da strette vie, insufficienti ad accogliere tutte le famiglie; perciò fuori delle mura erano stati costruiti altri edifici a formare un nuovo borgo, ma anch’esso cintato.
L’abitato aveva mediocri strade tutte lastricate, fra edifici con primo e secondo piano, coperti generalmente da tetti. Da esso si usciva da sei porte; una, quella detta « portanuova », si apriva sotto il castello o palazzo baronale. Fuori del recinto delle mura s’era costruito « il borgo », compartito da comode strade lastricate, che portavano a tre porte, dalle quali si accedeva alla campagna.
Nell’abitato, appena dopo la porta a mezzogiorno, poco discosta dalle mura, era la Chiesa Collegiata, sotto il titolo dell’ Assunta, con la facciata ad oriente. Nella parte più antica del paese vi erano le cappelle di S. Pietro, di S. Andrea, la chiesa e il monastero di S. Chiara. Oltre le mura, sulla strada dei pozzi, s’incontrava il collegio delle Scuole Pie e la chiesa di S. Domenico, nella quale officiavano i Padri Scolopi; più oltre emergeva la cappella in costruzione isolata, a due cupole coperte di lastrelle di pietra; fuori la porta S. Giovanni, su vasto largo, si trovava la chiesa omonima e il convento dei francescani riformati.
Il palazzo baronale era la più importante costruzione nella zona orientale del paese, costituita da corpi di fabbrica affacciantisi sull’aperta campagna per un verso, e per l’opposto sul largo interno e sul giardino. Costruito con notevole numero di locali, accoglieva degnamente la famiglia del barone, gli uffici dell’amministrazione feudale, la sede del Governatore, i magazzini, le carceri, le stalle; e in locali a parte i palmenti, i frantoi, le cantine.
Nella Chiesa Madre officiava il Capitolo, antico quanto il paese. Con diploma, re Ladislao nel 1407 aveva stabilito in essa le quattro primarie dignità: Arcipretura, Primicerio, venti Canonici, molti mansionari partecipanti sacerdoti, a volontà del Vescovo; costituiva l’ente economico collegiale che il Papa Clemente VII, in data 13 luglio 1527, confermava con Bolla, elevando la Chiesa a Collegiata. Il Capitolo numeroso aveva allora, ed ebbe poi, sacerdoti di vivace ingegno, dotti e pii.
La Chiesa Madre, a tre navate, aveva le cappelle che si vedono tuttora. A destra, entrando vi era il fonte battesimale, succedeva la cappella di S. Anna, con dipinto di buona fattura sopra l’altare; era jus patronato della famiglia Spinelli. La seconda cappella con Crocifisso di legno, e la quarta, con la statua in legno di S. Girolamo, erano state fondate dal Capitolo; le sculture erano opera di buona mano. La terza cappella della Madonna del Carmine era jus patronato della famiglia Musacco. In fondo alla navata su altare e nicchia vi era la statua in pietra di S. Lorenzo, nel patronato della famiglia Palmisano.
Nella navata di sinistra, a fianco della porta vi era l’altare in legno con effigie della Trinità; a lato, lungo la navata, la prima cappella di buona grandezza, col titolo di Nostra Signora di Terrarossa, aveva la statua in pietra della Madonna col bambino, attribuita a Stefano da Putignano. A parte vi era un busto di S. Gronzo.Tutta la costruzione era dovuta alla devozione di D. Giacomo Zita. La successiva, sotto il titolo dei Santi martiri Fabiano e Sebastiano, era nel patronato della famiglia Lezzi; la terza, alquanto più profonda, aveva le statue in pietra di S. Cosimo e Damiano; la cappella accoglieva la sepoltura del barone Francesco Moles e della moglie, dal 1619. L’ultima cappella, del Sacramento, aveva dipinti in affresco rappresentanti le virtù cardinali. L’altare maggiore, esistente in piano rialzato rispetto alla navata centrale, era affiancato dal coro in legno di buona architettura; un grande quadro dell’ Assunta, dipinto dal napoletano Fenoglio, sovrastava l’altare.
La Chiesa possedeva beni, amministrati dal Capitolo, valutati nel Catasto Onciario del 1751, per once 3252, e capitali attivi impiegati a rendita per ducati 14992.
Poco discosto dal palazzo baronale, sorgeva la chiesa del monastero di S. Chiara, costruzione voluta e portata a compimento, tra il 1623 e il 1625, dal sac. Vittore de Vittore. La chiesa ad una navata, con modeste cappelle, accoglieva un quadro della Natività su tela, dovuto alle famiglie Logrillo e Paciolla. La seconda cappella a- sinistra col titolo di S. Domenico, era ius patronato della famiglia baronale; la terza di S. Candida, e la prima di S. Marco erano nel patronato del Capitolo. L’altare maggiore era sormontato da un dipinto su tela, di notevole fattura, rappresentante S. Chiara. Il Monastero, nel 1751 era il più ricco ente del paese con beni valutati nel Catasto per once 11198, e con capitali attivi in prestiti, per ducati 17596.
Fuori dell’abitato, la chiesa diS. Giovanni, ad una navata, aveva a destra cappelle di sufficiente grandezza, dedicate alla Madonna del Rosario, all’Addolorata, a S. Giovanni Battista; a sinistra vi erano altari con santi francescani. Nel convento vi erano lO padri e laici, secondo la loro regola, vivevano senza beni. Poco discosta dalla porta vecchia, a ponente, sorgeva la costruzione a cui aveva posto mano e mente notar Santo Cavallo; e dal 1645, nell’annesso palazzo, vi era il Collegio. Il fabbricato aveva prospetto sulla strada per i pozzi e su quella dietro le mura. Esso accoglieva la comunità dei Padri Scolopi e le scuole. Nell’attigua chiesa di S. Domenico, sollevata di quattro gradini dal piano terra, di una sola navata, vi erano sei cappelle; a destra, la terza aveva un quadro di artista eccellente, raffigurando S. Leonardo era dono di Leonardo Franchi, nipote del notar Cavallo. Le altre cappelle dedicate a S. Francesco di Paola, alla Madonna del Carmelo, alla Pietà avevano quadri di pregio: quello della Pietà era dono della vedova Cavallo, Beatrice, cooperatrice nella fondazione delle Scuole Pie. Sull’altare maggiore stava il quadro ordinato dal Cavallo, Nostra Signora con S. Domenico e S. Antonio.
Gli Scolopi abitavano nel Collegio, nel 1751 possedevano beni per once 2600; con capitali attivi favorivano artigiani e coltivatori, con prestiti.
Il territorio del feudo aveva un circuito di 24 miglia, era costituito da terreni seminativi di ottima qualità e di appezzamenti arborati: ulivi, mandorli costituivano, in parte associati a viti, i poderi da cui si traeva buona produzione di olio, di vini, di frutti; i seminativi appadronati e i fondi feudali davano notevoli quantità di cereali e legumi. Nei dintorni dell’abitato, sufficienti appezzamenti erano coltivati ad ortaggi, utilizzando le acque dell’ordinario displuvio dell’abitato e delle strade periferiche.
Alle deficienza dell’acqua potabile, nella stagione estiva, si sopperiva con quelle sorgive esistenti nel territorio di Serri e Canale, che si attingevano da pozzi antichissimi, e servivano ai cittadini di Turi e dei luoghi vicini.
Nell’agro si accedeva per strade ben tenute e calessabili. Nel feudo aveva rilevanza il bosco Selvatetra, o Difesa baronale, folto, di alte querce; era luogo adatto per suini e giumenti.
Il territorio, più esteso verso mezzogiorno e ponente, aveva comune confine, col feudo di Putignano, un tratto di via romana, per circa 4 miglia, e per circa 2 miglia un tratto di « paretone » che attestava sulla strada di Putignano; tale manufatto, per circa 5 miglia, divideva il feudo di Turi, da sud verso ponente, da Frassineto e dalle terre di Serri e Canale; gli altri versanti del territorio avevano confini con Castellana, Conversano, Rutigliano e Casamassima.
Sulla vasta distesa di terre allodiali, feudali e burgensatiche operavano i contadini, soffrendo la condizione servile, e quasi ignari della posizione che li legava ai sistemi di conduzione dei fondi (4).
Gran parte dell’agro era destinato alla cerealicultura e alla pastorizia, dalle quali nel Settecento dipendeva, in gran parte l’economia dei massari e dei prestatori d’opera. Taluni, conduttori di terre, tendevano a passare da fittuari a proprietari, mediante rigorosi tenori di vita orientati al risparmio.
Campagnuoli, braccianti, calzolai, ferrari, maniscalchi, falegnami, bottai, muratori, conciatori, speziali, cerusichi, medici, notari, dottori delle leggi costituivano un popolo intento a sviluppare la economia del paese. Agli scambi provvedevano i negozianti e i mercanti attivi ed infaticabili. Fra i laici e i religiosi si contavano 10 dottori delle leggi, 5 medici, 4 notari, 2 speziali di medicine; i religiosi erano oltre 80 tra membri del Capitolo, Padri delle Scuole Pie, Padri francescani e monache di S. Chiara. La popolazione era in 730 fuochi. Tra le famiglie vi erano gli antichi casati del patriziato e dei ricchi benestanti. Si distinguevano i Lezzi i Gonnelli, i Musacco, i Caracciolo, i Gazzilli, gli Spinell, Zita, Ippoliti, Orlandi, Attolini, DeBellis, Lomastro, Menelao, Cistulli, Giannini: erano nomi di doviziosa e rispettata gente. Fra i magnifici signori si notavano possidenti che nel Catasto Onciario figuravano per migliaia di once. Il Catasto indicava i beni dei turesi per un totale di once 49787; i medi e grandi proprietari sommavano once 33311; le comunità religiose figuravano per once 16476.
I cittadini vivevano, secondo il grado, dai frutti dei propri beni, e da quelli del lavoro. La borghesia di più recente formazione, vivente « more nobilium »; s’era inserita tra i pochi nobili di antico ceppo. I nobili vestivano, con giusta proprietà, la giamberga con calzoni secondo il costume napoletano del tempo, e si mantenevano quasi sempre, con prestigio, nei pubblici uffici amministrativi e giudiziari. La generalità dei vassalli e del terzo stato usava calzoni, giubbone, calze e scarpe; le donne civili e dell’artigianato si occupavano della casa, o lavoravano a tessere e filare; le contadine numerose cooperavano nei lavori dei campi; tutte le donne vestivano corpetto e gonna di panno a colori vivaci. Non mancavano buone fattezze alle donne turesi ed indole amabile.
L’autorità municipale era costituita dal sindaco e da 4 eletti, da un cancelliere e da due camerlenghi, nominati dai cittadini, riuniti in parlamento, il 15 agosto di ciascun anno. La nomina fatta, coi suffragi dei votanti, era confermata dal barone, il quale poteva, ad arbitrio, scegliere uno dei nominati, anche con minor numero di voti, alla carica di Sindaco.
L’Università, oggi Comune, designava più persone alla bagliva, per il controllo dei pesi e misure, e per la carica dell’Erario. La nomina del Governatore spettava, di diritto, al barone; l’Università dopo gli dava il possesso della carica. Un forestiere, quasi sempre dottore delle leggi, era chiamato alla giurisdizione civile, criminale e mista; per la fiera che si svolgeva, per 10 giorni, in occasione della festività di S. Giovanni, antico Patrono del paese, veniva incaricato un degno cittadino quale «mastro della fiera »; e gli spettava la speciale giurisdizione per quei giorni.
Il barone possedeva il diritto della mastrodattia, e quelli della bagliva, della catapania, della portolania, della piazza, dei pesi e misure, dello scannaggio, la gabella della farina, il privilègio del donativo, di varie altre prestazioni; infine quella del terraggio. Le entrate annue del barone si calcolavano per circa 2400 ducati. A queste si aggiungevano quelle derivanti dai beni burgensatici propri della famiglia Moles, nello stesso territorio di Turi.
I terreni feudali si trovavano nella tenuta dei «Frascinali », per vignali 5, nella Difesa di Selvatetra, per 1290 vignali, e nel territorio di Serri, Canale e Frassineto, nei quali si esercitavano gli usi civici. Il terraggio annuo, – proveniente dai fondi coltivati di Turi, Frassineto, Serri e Canale – si aggirava in tomoli 685 di grano, 487 di orzo, 285 di avena, 132 di legumi, per il valore di 1100 ducati. Nel 1740 il feudo e i corpi feudali di Turi erano apprezzati per ducati 81440; il feudo di Frassineto per 13398 ducati; i beni Burgensatici per ducati 6960; tutti davano, al barone un beneficio che ammontava a 107.798 ducati; meno o più secondo i fattori dell’economia di quei tempi.
I Moles possedettero notevole agiatezza, ed essa derivava dal territorio e dai proventi feudali acquistati, nel 1546, per solo 17.000 ducati.
Giova riconoscere che il godimento dei beni e delle relative entrate fu sempre travagliato dai debiti e dalle contese, di cui si dirà più oltre.
I beni dei soli cittadini turesi, sono distinti in beni di comunità ecclesiastiche, in beni propri di ecclesiastici, in beni di grandi possidenti, ecc.
I grandi possidenti, figuravano come appresso:
Vito Nicola Gonnelli, beni per once 3259; Oronzo Cistulli per 1907; Domenico Zita, 1428; Giuseppe Venusio, 1305, Pietro Caracciolo, 1300; Annibale Moles, 1159; Vito Domenico Giannini, 1075; Vitantonio Lezzi, 963; Francesco Menelao, 951; Santo Spinelli, 787; Diego Jngellis, 734; Nicola Orlandi, 717; Pasquale Lomastro, 703. Essi costituivano il nucleo prevalente dei cittadini orientati alla conservazione nel tipo dell’agricoltura feudale.
ASB: Dem. Com. Fas. 120, voI. 1403; Fas. 121 voI. 1406.
Mastrodattia (dal latino magister actorum). Il mastro d’atti istruiva i processi penali, poteva nominare, insieme al sindaco, delle guardie che lo aiutassero nel lavoro di vigilanza dell’ordine pubblico. La mastrodattia si dava in affitto al maggior offerente e perciò comportava “infiniti abusi”.
Portolania incarico di portolano. Tra l’altro il p. vigilava sull’attività edile dei cittadini, in pratica rilasciava le licenze edilizie e controllava la regolarità dei pesi e delle misure.
Terraggio vocabolo antico che sta per terratico. Contratto agrario o tributo su terreno coltivato
Il burgensatico costituisce una proprietà di esclusiva pertinenza del feudatario come privato cittadino; non avendo, pertanto, natura feudale non è soggetta al pagamento del “relevio”, ma alla “bonatenenza”. La legge eversiva del 2 agosto 1806 escluse i beni burgensatici degli ex feudatari dalla “divisione di massa”. Occorre, poi, precisare che il “relevio” era un istituto feudale, in ragione del quale alla morte del feudatario, il feudo rimaneva agli eredi solo attraverso il pagamento di una quota (“relevio”) che rinnovava e continuava l’investitura feudale; oggi definiremmo il “relevio” una “tassa di successione”. Infine, l’istituto della “bonatenenza” costituiva l’imposta a cui erano obbligati i cittadini forestieri che non abitavano nell’università e sul cui territorio, però, possedevano beni immobiliari.