Leonardo Lerede
Un tragico incidente del 26 febbraio 1964 stroncò la vita di sette giovani bersaglieri
Leonardo Lerede, che a Eboli ha visto svanire i suoi sogni
di Vincenzo Pascalicchio
“Quando ebbe la cartolina e seppe in quale Corpo doveva prestare il servizio di leva, saltava dalla gioia. Era incantato dal cappello piumato, dalla potenza che si doveva sfoggiare, dai carri armati: perché a lui piacevano la meccanica, le macchine e ogni cosa ingegnosa che creava movimento: tanto che aveva la patente per condurre mezzi pesanti!”.
“Attento!”, diceva mamma Angela Pugliese, malinconica e con la premura di sempre. Approntò le cose che a lui piacevano, il Pane di Spagna e altre specialità nostrane. E partì, orgoglioso, a Persano: una frazione del Comune di Serre in provincia di Salerno situato lungo le rive del fiume Sele, vicino Eboli. Leonardo faceva parte del 2° Scaglione anno 1963. Lì imparava come far correre un carro armato e le arti militari di competenza dei Bersaglieri. Correre, sempre: così com’era consueto agire alla Scuola Truppe Corazzate nel 4° Reparto Corsi. Aveva sempre con sé le canzoni del cuore: Passano i Bersaglieri (1848), Flik e Flok (1862), Piume baciatemi, La Ricciolina, Vent’anni allegramente. “Mamma sto bene e così spero di voi tutti. Forse verrò in licenza. Nuccio”. “Saluti da Eboli”. Cartoline che tranquillizzavano la famiglia: suo fratello Giacomo non godeva mai di buona salute. Suo padre, Antonio, chiedeva sempre: “Ha scritto Nuccio?”. Piume, giocate dall’aria, che volano e volano orgogliose nelle parate, bande che spargono musica e sogni tra le folle incantate. I Bersaglieri sono lì, operosi. “Mamma, non vengo più in licenza, verrò il 26 Febbraio e avrò più giorni. Nuccio”.
Di notte, una notte cupa, di nebbia gelida, il 26 febbraio del 1964, alle 3.30, due Carabinieri bussarono alla porta di Antonio e dissero: “ E’ lei Lerede? – Sì! – Hai un figlio militare? – Sì! Cos’è successo?- Niente! E’ successo un piccolo incidente e si è fatto male, andate! Sta a Eboli. Alle ore 4.30, portando con loro il Pane di Spagna e l’uva conservata appesa in soffitta, che avrebbe trovato se fosse venuto in licenza, partirono: padre, madre, la sorella Menina con il marito Pasquale Simone, che guidava una “Belvedere” e che durante il tragitto subì un guasto e li fece giungere a destinazione alle ore 14. Si recarono subito all’Ospedale di Eboli, chiesero di Leonardo, e nessuno sapeva. Poi indicarono un letto. Si avvicinarono e scoprirono che non era il figlio cercato. Chiesero comunque informazioni all’infortunato e… sapeva solo dire un delirante “non ricordo!”. Allora si dirigono a Persano, alla Caserma “Cucci”: “Voi dovete dirci dov’è mio figlio, in quale Ospedale, a Eboli non c’è!” Durante il percorso, un carro funebre li voleva sorpassare e sollecitava col clacson: “maledètte a jìdde. Tutto sembrava scorrere veloce. Poi venne un Ufficiale e disse loro: “Seguitemi!”. A Eboli c’era un movimento strano e tanti militari in giro, e pensarono: “Forse è una festa, forse una ricorrenza e ci fanno una sorpresa!”. E c’era tanta gente, tanta. “Ma cos’è!”. Un attimo, e giunsero nella piazza strapiena di mille e mille persone e militari e banda: di fronte, la Chiesa Madre, sepolta tra corone e corone e fiori. Mamma Angela, alla vista di tutto quello spettacolo capì che il mondo era crollato. E svenne tra le braccia di tante amorevoli donne che subito badarono a confortarla e fargli annusare un panno imbevuto all’aceto, per farla rinvenire. “Scusate se non abbiamo detto niente prima, pensavamo di darvi un dolore più forte: ormai è successo!”. Gente tra cielo e terra, fiori e pianti. Vento gelido, volti straniti: il sole era come una luna malinconica che guarda percorsi composti e dolori evidenti. Immensi. E dietro la bara chiusa un grido si solleva, soffocato: “Nuuccio!”. Appena percettibile. Neppure un bacio. Ultimo.“L’ultimo abbraccio fu la sera di capodanno del 1964, quando partì per rientrare in Caserma”. Una miriade di passi ordinati, la parata, grandiosa, grandissima, per onorare i sette sfortunati Bersaglieri.
Nuccio, la sera del 22 febbraio del 1964, ebbe la licenza ma, dopo poche ore, gli fu revocata dal Colonnello perché voleva fare subito le esercitazioni; in cambio gli avrebbe dato più giorni dal 26 febbraio. Fatalità: il giorno 25 febbraio 1964, alle ore 17, di rientro dall’esercitazione, giunti sul Ponte di Rialto, al centro, il carro M 113 (trasporto persone), visto dai commilitoni che erano in autocolonna dietro, “fa due giri su se stesso e precipita giù giù in un precipizio profondo 80 metri, rimanendo con la parte anteriore verso il cielo”. Un abisso infernale. Una fatalità che i compagni d’armi e il Colonnello non accettavano: assolutamente. Perché? Un attimo prima o dopo non sarebbe accaduto nulla: se si ipotizza che un cingolo si blocca o cosa, cosa? I corpi, sfigurati. Allora il Comandante disse: “Chiudete tutti”. Il ragazzo dell’Ospedale era il miracolato che si salvò perché fu sbalzato fuori e cadde in una fossa fangosa. “Il Colonnello si fidava di Leonardo perché era bravo, e si disperava perché si sentiva in colpa per quella licenza revocata”. “Finiti i funerali ci portarono in Caserma, venne un Ufficiale, ci fece le condoglianze e, finì così l’avventura delle piume e – Vent’anni allegramente –”.
Leonardo Lerede era nato a Turi il 2 settembre 1942. Accadde che mentre mamma Angela si dirigeva verso il carcere, giunta a largo San Giovanni, davanti a lei si aprì una voragine: improvvisamente saltò su di un triciclo e pedalò forte pensando di superarla ma… cadde giù, anche lei. In quel mentre apparve un bel giovane, atletico come il figlio, e le disse: “Vedi come succede!”. Era un sogno che provò a convincerla del fatto che Leonardo aveva fatto il possibile per salvarsi. E non riuscì. “Non ostinarti mamma!”. Al padre gli fu reso l’orologio, che pulsava come un cuore, e lo portò con sé per anni e anni: oggi ancora vivo nelle mani di Menina. Così, Caterina, l’altra sorella, e Giacomo, inermi e gelati dagli eventi. Poi, la cerimonia a Turi, la tomba nella zona monumentale del cimitero, i pianti, il vuoto. Assoluto. E sulla tomba: “Alla Patria hai donato tutti i sogni della giovinezza”. Mamma Angela non fu più come prima: era sfinita e non si dava pace. Quante voci affollano la mente del padre, della madre: i chiacchiericci mortificanti degli stupidi di turno, e di chi non conosce il dolore. Qualche anno dopo, Giacomo morì. Fu, per tutti, un perdersi vagando coi pensieri.
La signora Menina, che ancora oggi si commuove, ha messo a mia disposizione ogni documento, ogni ricordo, ogni immagine, ogni emozione. Per quest’umanità, mi sono commosso nell’intervistarla e nello scrivere questo modesto articolo a ricordo di un giovane Bersagliere che ha visto svanire i suoi sogni, la sua allegria, la sua umanità, la sua vita in un attimo. (inserto del “Paese” gennaio 2009).
(L’Amm.ne comunale ha dedicato una via Leonardo Lerede)