Il Cappellone di Sant’Oronzo

di ANGELA ROSSI

La Chiesa di Sant’Oronzo è comunemen­te chiamata dai turesi “Cappellone di Sant’Oronzo”, a sottolineare che la stes­sa è una “Cappella” dedicata al Santo Martire e costruita per il suo culto, ad esaltazione del­la grotta, luogo sacro ritrovato secondo la tradizione nel 1658. Una relazione del 29 mag­gio 1757, custodita nell’archivio della Chiesa Matrice, scritta dall’ arciprete Agostino Gon­nelli con il canonico Donato Antonio Dalena ed il sacerdote Francesco Capogrossi, ci de­scrive l’avvenimento della scoperta della grotta avvenuta un secolo prima e tramandato oralmente. Si racconta che, nel triste anno del contagio 1657-1658, quando la terra di Tu­ri vide morire per peste più di 800 persone, il Martire Sant’Oronzo apparve in sogno ad una giovane verginella ed indicandole il luo­go dove si trovava la grotta, fino a quel mo­mento ignorata dai turesi, le disse: «Ricorrete con fede a Sant’Oronzo e vedrete cessare la  peste».

La grotta fu subito trovata ed al suo interno fu rinvenuto un altare con sopra una croce e due ampolline. La scoperta fu accolta con grande entusiasmo e devozione. Ma negli anni  il culto del Santo si affievolì, fino a quando nel 1726, alla fine del mese d’aprile, mentre si fabbricava un nuovo quarto di prospettiva del “Convento dei Padri Riformati di San Francesco” sotto il titolo di San Giovanni Bat­tista, un religioso, Fra Tommaso di Carbona­ra, frequentò spesso la grotta, mentre assiste­va alla gente che scavava le pietre necessarie per la fabbrica di cui sopra nel territorio vici­no. Durante queste visite gli apparve il Santo che, lamentando la raffreddata devozione dei turesi, lo esortò a far portare una croce ed inalberarla nel largo che sovrastava la grotta in segno della sacralità del luogo. Quando la notizia fu divulgata, l’Arciprete don Domeni­co Gonnella ordinò la formazione di una cro­ce che, esaudendo la volontà del Santo, il 3 maggio fu solennemente portata alla grotta. La notizia delle apparizioni si diffuse e nu­merosi fedeli accorsero nel luogo sacro per implorare miracoli, portarono via pezzi di stalattiti e stalagmiti, ritenendo che avessero effetti medicamentosi, di cui oggi notiamo la mancanza.

In quel tempo la grotta naturale sita in piena campagna, lontana dall’abitato, doveva essere un luogo di difficile accesso per l’accresciuta folla di fedeli. Con le offerte fu così iniziata la costruzione di una grande Chiesa denominata “Cappellone di Sant’Oronzo”, sulla sacra grotta ed intorno ad essa. Si do­vette iniziare, come si legge nell’ epigrafe po­sta sulla cornice, nel 1727 con la costruzione sul primitivo ingresso di un piccolo padiglio­ne, oggi unico lucernario della grotta esterno alla pianta della Chiesa. Seguì la formazione di una monumentale scala di ingresso alla grotta sottostante, con gradini in pietra fine­mente lavorata e balaustre in ferro battuto di ottima fattura, datata A.D. 1728 come si legge in un’ epigrafe posta sull’ arco centrale frontal­mente alla scala dove la prima rampa è dop­pia, parallela e si conclude con una piccola cappella a tre cupole, al cui centro è posto un Crocifisso di anonimo artista locale, databile al secolo XVIII, restaurato nell’ anno 1999-­2000. La fabbrica del Cappellone iniziò quin­di nel 1727.

In quegli anni feudatari di Turi erano i Moles, i quali ne rimasero Signori fino al 1752, quando il fondo fu venduto da France­sco Moles, a seguito del sequestro di tutti i suoi beni, ad Ottavio e Romano Venusio. L’at­to pubblico di vendita, curato dal Regio Tavo­lario Luca Vecchione, consegnato il 2 marzo 1746 al Giudice della Vicaria, il Marchese Francesco Rocca, descrive dettagliatamente tutto il Feudo di Turi: se ne desume che gli abitanti avevano un tenore di vita decisamen­te positivo; agricoltura e commercio rendeva­no i circa 2500 abitanti del feudo un popolo «mediamente comodo e ricco». Oltre gli 80 sacerdoti, vi era un numero assai significativo di professionisti relativamente agli abitanti, ciò era certamente dovuto all’azione educati­vo-culturale svolta a Turi dai Padri Scolopi sin dal 1645. L’apprezzo del Tavolario descri­ve gli edifici sacri esistenti, fra cui ricorda la Chiesa di Sant’Oronzo, che pertanto in quella data era già stata ultimata.

La chiesa, isolata in piena campagna, costruita per volontà dei fedeli, bene di pro­prietà pubblica, doveva apparire in tutta la sua maestosità e teatralità, rispecchiando un periodo particolarmente ricco di vita religiosa e culturale a Turi. Dalla nota n. 13 della Dio­cesi di Conversano del 19 maggio 1888 si ap­prende che il 26 aprile dello stesso anno il servizio della Chiesa di Sant’Oronzo fu affi­dato dal Sindaco O. Giannini, con regolare convenzione, al Priore della Confraternita di detto Santo ed ai suoi assistenti, fondata con Regio Assenso nel 1792.

L’edificio è una fabbrica quadrangolare con croce greca inserita, è coperto all’incrocio delle navate con una calotta sferica, mentre le navate sono coperte con volta a botte ed a vela. La grotta, profonda circa 12 metri, orga­nizzata su diversi livelli, costituisce con il suo altare in pietra, coevo ed analogo ai su­periori, la “cripta” della Chiesa e ne fa parte integrante. La facciata è a vento con la tra­beazione a scivolo sui fianchi ed inarcata al centro. Sul portale d’ingresso c’era uno stem­ma del Comune di Turi con un’ epigrafe illeggibile per la prima riga, seguita dalla scritta “Martinelli 1774”, purtroppo trafugato anni fa, sorte comune ai due angeli che erano po­sti all’ingresso, le cui basi recano ancora la data 1918. Le coperture, oggi a tetti inclinati con coppi in laterizio, sono state riportate con gli ultimi lavori di restauro, terminati il 31 marzo 2000, alla loro originaria conforma­zione che, come testimoniano documenti contabili e contrattuali rinvenuti presso la Bi­blioteca Comunale di Turi, erano state modi­ficate con i lavori di manutenzione eseguiti nel Novecento.

Nel 1925 la Chiesa fu restaurata, come si legge anche da un’ epigrafe in controfacciata. Furono rimossi «gli embrici di Rutigliano» e messi in opera «gli embrici di Molfetta», spia­nato il materiale «minuto», i calcinacci, sull’estradosso delle volte, per ridurre «il pia­no a due falde»; furono utilizzati gli embrici di risulta dell’ ex Convento di Santa Chiara. Il Direttore dei Lavori fu l’ing. D. Resta e l’1mpresa esecutrice Domenico Pettico di Turi. Nel 1943 furono eseguiti lavori di riparazione per danni alle volte ed agli infissi e ancora nel 1948 furono riparati i tetti, la facciata principale e posate gronde in zinco.

Nel 1961 i lavori di manutenzione dei tetti consistettero nella «rimozione del manto di embrici curvi e piani della tettoia ricoprente il Cappellone e rifacimento con materiale di risulta misto a nuovo», furono posati in ope­ra canali di gronda di cemento-amianto. Il Direttore dei Lavori fu l’ing. Vito Liegi e l’Impresa esecutrice Bartolomeo Camposeo di Turi. Nel 1962 furono riparate le murature, imbiancate, rifatti gli intonaci sulle facciate esterne. Nel 1972 furono rimosse le tegole e sostituito il tegumento in argilla con lastre di Cursi, posate in modo inconsueto a copertura di tetti spioventi, sovrapponendole e forman­do con le stesse anche i colmi, i canali di gronda e le mappette. L’lI giugno 1993 Chiesa e grotta di Sant’Oronzo furono sotto­posti a vincolo ai sensi della legge lO giugno 1939 n. 1089.

Nel 1998 furono iniziati gli ormai urgenti lavori di ristrutturazione  (Ho ritenuto necessario descrivere dettagliatamente lo stato di degrado della chiesa prima degli ultimi re­stauri ed i lavori eseguiti per riportarla al culto con l’unico intento di documentarne la storia recente.)

L’edificio era in completo abbandono, inte­ressato da estesa umidità discendente e le volte erano gravemente danneggiate dall’umidità, dovuta al cattivo funzionamento del manto di copertura. Si riscontrava umi­dità sulle pareti in corrispondenza delle co­perture degli edifici confinanti, particolar­mente fatiscenti dietro l’altare a sinistra. Inol­tre grave risultava lo stato di umidità della “Cappella del Crocifisso”, che, posta sotto l’ingresso principale, evidenziava vistose in­filtrazioni d’acqua sia nelle murature che nel pavimento.

All’ esterno dell’ edificio non erano presenti quadri fessurativi di rilievo, mentre l’esame dell’interno mostrava che le volte, soprattutto la centrale ed il presbiterio, erano lesionate. Le volte della Cappella del Crocifisso, conca­tenate in un precedente intervento, presenta­vano un avanzato degrado del ferro. Tutti gli intonaci risultavano gravemente danneggiati sia dall’umidità che dalle lesioni. La Chiesa era pavimentata con battuto di cemento disomogeneo tra fasce di basole di pietra che sot­tolineano !’impianto a croce greca. In pessimo stato erano le decorazioni dei sottoarchi, le pitturazioni dei muri e gli altari, grossolana­mente ridipinti recentemente con colori molto accesi.

La Chiesa risultava priva di un vero e pro­prio impianto elettrico e gli apparecchi illu­minanti erano del tutto insufficienti. L’inter­vento di restauro, verificato il generale stato di degrado, è iniziato dalle coperture con lo svellimento del manto di pianole di Coriglia­no, svuotamento dei rinfianchi, consolida­mento delle volte, impermeabilizzazione e posa in opera di tegumenti in coppi del tutto simili alla copertura del lucernario, che man­teneva le caratteristiche originarie dei tetti della Chiesa, riscontrate nella ricerca storica e nei saggi. Mentre all’interno sono state risar­cite le lesioni e consolidati i muri.

Molto complesso è stato il risana mento della “Cappella del Crocifisso”, che ha com­portato la impermeabilizzazione della fondazione della facciata principale, la modifica parziale del piazzale antistante, al fine di al­lontanare le acque meteoriche, che convoglia­vano giusto all’ingresso della Chiesa. Il pavi­mento in battuto di cemento, chiaramente provvisorio, è stato svelto e sono state posate basole in pietra bianca all’interno dei riquadri originari, al fine di integrarle con le esistenti e donare luminosità all’insieme. Il risanamen­to degli intonaci ha comportato l’asportazione delle vecchie tinte, color terra, azzurro, blu e la ridipintura nei toni del celeste, riscontrati nei saggi, che, rispettando le campiture esi­stenti, hanno reso l’interno molto più chiaro ad esaltazione dell’ ampia spazialità della Chiesa settecentesca, perduta in seguito ai ri­pristini avvenuti nei primi decenni del ‘900. Anche le leggere decorazioni a stucco che or­nano i sotto archi sono state restaurate e ridi­pinte. La Chiesa è stata dotata di impianto di illuminazione normale e di emergenza, ed è stato realizzato l’impianto antifurto e acustio co. Nella grotta, i corpi illuminanti a lampade alogene a bassa tensione e bassa emissione d’infrarossi, dotati di riflettore dicroico, evita­no la propagazione anteriore del calore e non danneggiano le concrezioni. Affinché la Chie­sa possa essere vissuta con tranquillità anche di sera è stata migliorata l’illuminazione esterna con quattro fari a pavimento. Gli in­fissi sono stati sostituiti con infissi in ferro zincato verniciato, apribili elettricamente per garantire l’areazione. Le porte laterali ed il portone in legno sono stati restaurati, come pure la balaustra in ferro battuto, mentre la porta di accesso alla grotta è stata rifatta in quanto irrecuperabile.

I quattro altari, prima dell’ultimo restauro, ad eccezione dell’ Altare Maggiore, presenta­vano estese e pesanti ridipinture eseguite alla fine dell’800 e nel ‘900; questo restauro, sotto l’Alta Sorveglianza della Soprintendenza per i Beni AA. AA. AA. e Storici della Puglia, do­po un’ accurata indagine e campagna di saggi, ha comportato la pulitura ed il consolidamen­to dei due altari laterali e dell’altare della grotta, che oggi riappaiono nella loro elegan­za originaria. Un’attenzione particolare ha ri­chiesto l’Altare Maggiore, che ad una prima analisi veniva datato agli ultimi anni dell’Ot­tocento, perché formato da specchiature e finti marmi, decori neoclassici in gesso ecc. Data la discordanza con la datazione dell’intera fabbrica e con quella degli altri altari, la scri­vente, in qualità di direzione dei lavori, ha ri­tenuto opportuno eseguire saggi di pulitura ed indagini. Si è così verificato che, al di sotto delle superfici in gesso, l’altare nascondeva una struttura in pietra più antica, con ornati a rilievo policromati. Data l’alta qualità dell’al­tare sottostante, sono state rimosse tutte le parti aggiunte, intervenendo con operazioni meccaniche e riportando alla luce un inedito altare settecentesco che, in pietra policromata, seppure danneggiato, dopo il restauro è leg­gibile ed integrato con i laterali. Tipicamente settecentesco, per le superfici movimentate, le volute, le specchiature, ghirlande di fiori e frutti, in origine fu un altare a parete, rimosso e spostato più innanzi negli ultimi anni del sec. XIX. Nello stesso momento, in relazione alla moda dell’ epoca, si decise di cancellare per sempre l’estroso apparato ornativo “‘­dell’altare, tipico del sec. XVIII, spicconando­lo e danneggiandolo irrimediabilmente. Alcu­ni decori in pietra, oggi recuperati, vennero addirittura fatti saltare con il martello e riuti­lizzati, assieme alla malta, come materiale da rinzaffo nelle zone più profonde delle volute. Le superfici delle specchiature furono mala­mente scalfite allo scopo di facilitare l’adesio­ne del nuovo stucco ottocentesco. Il restauro ha comportato l’asportazione degli intonaci, la pulitura delle superfici, la stuccatura di al­cune lacune e la loro patina tura. Oggi l’Altare Maggiore in pietra policromata, settecentesco, ha una pala decorata a finto marmo, di un certo decoro, recante l’ epigrafe “A devozione M. Iacovazzi 1884”. Risultava privo dell’anti­na del tabernacolo, che è stata realizzata in bronzo e donata il 7 maggio 2000 dai turesi Stefano Rossi e Beppe Coppi.

Sull’ altare della grotta è collocato un grup­po scultoreo in pietra dipinta di Sant’Oronzo benedicente, con volto ispirato ed il pastorale nella mano sinistra, tra due angeli, di buon modellato e proporzioni, opera di scultore lo­cale che reca alla base in pietra della statua di Sant’Oronzo la scritta “Protexi et Protegam A. D. 1760”; appare chiaramente rimosso dalla sua originaria collocazione in quanto le basi sembrano divelte e poggiate in modo provvi­sorio. Le dimensioni delle basi e la loro corri­spondenza con le misure dell’ Altare Maggio­re portano a supporre che il gruppo potrebbe essere stato rimosso da questo altare quando fu modificato (vedi ricostruzione fotografica). Il gruppo necessita di un intervento di pulitu­ra e restauro.

Meritevoli di attenzione sono inoltre anche i gradini degli altari laterali della Chiesa su­periore e della grotta, ornati da mattoni sette­centeschi, con decorazione floreale a quarti, probabilmente provenienti da altri edifici reli­giosi turesi e qui riutilizzati, in quanto mon­tati in modo grossolano.

Dinanzi all’ altare della grotta si estende un bellissimo pavimento di mattonelle maiolica­te, databile al sec. XVIII. Alcune rappresenta­no uccelli, altre animali, altre busti di figure umane, tra cui un pellegrino provvisto del vestiario e degli accessori che sono tipici del viandante: bordone, cappello, borraccia, man­tellina, bisaccia. Altre mattonelle rappresenta­no paesi, castelli, chiese, fiori e rosoni. Molto fine e curato è il disegno, i colori sono tenui, predominano il giallo, il verdino e l’azzurro sul fondo in tinta unita chiaro. Sono in tutto 238 mattonelle posate su quattordici ordini per diciassette 2.

L’intervento di restauro appena concluso è stato realizzato con il consolidamento me­diante iniezioni di malte idrauliche, asporta­zione di vecchie stuccature a cemento, fissag­gio di scaglie e pulitura delle superfici con verniciatura finale di protezione. Alcune rig­giole d’angolo sul primo gradino dell’altare della grotta e sotto l’ultimo gradino appaiono particolarmente rovinate, probabilmente a causa degli scavi che si svolsero all’interno della grotta nel 1920 sotto la sorveglianza dell’ing. Vincenzo Leogrande di Putignano, da una Commissione di 53 persone, composta da fedeli allucinati, a seguito delle strane ispi­razioni del mutilato Oronzo De Carolis, in ba­se alle quali si accreditò la voce dell’ esistenza del corpo tutto d’oro del Santo, che doveva essere ritrovato sotto il terzo gradino della grotta. Gli scavi si svolsero anche con il per­messo del Soprintendente Carlo Calzecchi, ma naturalmente non fu trovato nulla; si smi­sero gli scavi negli ultimi mesi del 1920. È stato restaurato anche il Crocifisso in legno. La scultura in oggetto, di anonimo artista lo­cale, databile al secolo XVIII, posta sull’in­gresso trionfale alla grotta, fu con grande pro­babilità il Crocifisso solennemente portato in processione il 3 maggio 1726 dall’ Arciprete don Domenico Gonnella, il quale ne aveva ordinato la formazione a seguito delle appari­zioni del Santo al religioso laico Fra Tommaso di Carbonara (doc.). Il Crocifisso fu quindi portato nel 1728, anno in cui fu costruita la scala di accesso alla grotta, nella relativa nic­chia centrale.

Il manufatto era molto danneggiato anche a causa della sua primitiva collocazione in un ambiente ad ipogeo, certamente non idonea al materiale di cui è formato.

A causa delle precarie condizioni, con l’an­dare del tempo il Crocifisso subì almeno due interventi di riparazione, l’ultimo dei quali assai grossolano. Infatti, una pesante stucca­tura a gesso tentava di rimodellare la folta ca­pigliatura e la lunga barba con l’aggravante di utilizzare per l’occasione l’originale sup­porto ligneo, tanto che alcune parti del cor­po, mani e braccia, erano ormai distaccate e perdute per sempre.

Man mano che si eliminavano gli strati di ridipintura e le pesanti stuccature, ci siamo resi conto della tecnica utilizzata. Si tratta in­fatti, come si può notare dopo il restauro, di una scultura di legno appena abbozzata dall’artista, e dallo stesso poi definitivamente modellata attraverso uno stucco di legno e colla. Su quest’ultimo, l’autore ha poi incolla­to una serie di tele di varie dimensioni e tra­mature in seguito finemente stuccate e colo­rate, come si può ancora vedere sul perizo­ma.

I lavori sono stati ultimati il 31 marzo 2000. Progettista e Direttore dei Lavori la sottoscritta arch. Angela Rossi ed Impresa ese­cutrice Geom. Nicola Ferdinando Fuzio di Bari, che ha curato anche il restauro degli al­tari, delle maioliche e del Crocifisso.

Questi ultimi restauri hanno quindi inte­ressato tutto l’edificio rendendolo agibile e permettendone la restituzione al culto, che è avvenuta con una cerimonia solenne, svolta­si il 7 maggio scorso, in memoria del pelle­grinaggio che si svolse il 3 maggio del 1726. Alle ore 18, una gran folla di fedeli in Pelle­grinaggio Giubilare Penitenziale, partendo da piazza S. Orlandi, ha raggiunto il “Cap­pellone” dove, sul piazzale antistante, si è svolta la Concelebrazione Eucaristica presie­duta dal Monsignore don Vito Ingellis, pre­senti le autorità locali e dei paesi vicini.

La solennità della benedizione della Chie­sa è stata sottolineata da un piccolo concerto di musica di ottoni che hanno suonato tra la folla festante.

(dal III quaderno “ sulle tracce” del Centro Studi di Storia di Turi)

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