Quel Carnevale turese
di Giacomo Miale
……………………………L’inizio del Carnevale turese (quello già gestito dall’ Arciconfraternita del Purgatorio) apriva i festeggiamenti iI 17 gennaio, giorno dedicato alla festa di S. Antonio Abate: una delle attrattive era l’albero della cuccagna (bastava issarlo perché nascesse la festa) e comprendeva, soprattutto, la benedizione degli animali e del fuoco.
Un grande falò allietava la degustazione dei percjiedd (biscottini tozzi somiglianti a porcellini e ricoperti di vincotto – il porco simboleggia iI carnevale), accompagnati dal “primitivo” vino locale.
Il costume di Arlecchino è variopinto, bello perché fatto di stracci colorati a simboleggiare lo schiudersi di fiori e gemme.
Turi non ha una “maschera” come Farinella (Putignano) e non vanta la tradizione dei “festini” (Sammichele) o quella del fischietto in terracotta (Rutigliano); questo turese è un carnevale appartenente ad una cultura “moderna”, allorquando la liturgia cattolica aveva già sostituito i simboli pagani con i contenuti del cattolicesimo.
A fronte della obiettività storica rimane da verificare quanto ha inciso la fondazione di uno Stato italiano inteso a realizzare la trasformazione dei sudditi di diversi sovrani in cittadini di una Patria unica.
Vediamo in che modo il nostro carnevale ha conservato queste tracce. Nei paesi, nelle frazioni, nelle città, nei nuclei sparsi per le campagne, il carnevale costituisce il più delle volte l’unica occasione ufficialmente riconosciuta per il gioco e per il divertimento. In effetti il carnevale, pur nella sua fenomenologia scherzosa ed apparentemente frivola, testimonia una risposta modellata culturalmente all’ esigenza di una rivalutazione della vita. L’ultimo giorno di carnevale avveniva una ridistribuzione dei ruoli, con un significativo annullamento delle barriere e delle distanze sociali fra i sessi, tanto da sistemare sul palco i due troni per il re e la regina, che attendevano la posa del denaro nel vassoio situato accanto all’ effige delle Anime del Purgatorio. Erano attori gli stessi confratelli, tutti maschi, e il riferimento era alla tassa feudale del terraggio, riscossa prima dai Moles e successivamente dai Venusio.
Addirittura, dice Giovanni Bruno « … i turesi infatti cercavano di sottrarsi all’ onere e alla misura dell’ odiata gravezza, mentre il Venusio, dal canto suo, intendeva giungere alla riscossione con l’intervento della forza armata … » 5.
A Turi il popolo operava la sua rivoluzione (rovesciando il mondo dei ruoli sociali) diventando protagonista e padrone della sua esistenza, anche se sul piano della maschera. Il carnevale è stato per secoli, anche a Turi, la più importante delle feste allegoriche. ………………. Pertanto da turesi del XX secolo dobbiamo conservare questo filo sottilissimo della memoria, il cui elemento cardine è il complesso dei riti di rovesciamento, officiati nella festa, la sua natura di occasione in cui tutto ciò che è norma quotidiana viene disattesa. Un periodo insomma di disordine generalizzato e in pratica istituzionalizzato. Certo c’è stata una raffinatissima operazione culturale sul mondo contadino, indubbiamente ad opera dei Padri Scolopi, padri che si dedicarono alla eliminazione dell’ analfabetismo a Turi, dove pare gestissero una sala teatrale adiacente alla chiesa di S. Domenico e sensibilissimi ai temi della comunicazione sociale.
L’importanza del nostro carnevale è nella singolarità della trama rappresentativa, testimoniata dall’ articolo del 1898, apparso sulla rivista “Illustrazione popolare” a firma di Carlo Orlandi. L’autore narrava che il nostro carnevale (allora centenario) trattava di un argomento storico che si intrecciava a leggendarie credenze popolari, condite di religiosità e teatralità popolare. Un protagonismo popolare che riduceva ad oggetto utile l’establishment borghese, utilizzandolo concretamente a finanziare quel gioco effimero del “mondo al rovescio”, in cui il proletariato ottiene denaro travestendosi da regnante.
Il riferimento storico testimonia una delle pagine più tragiche della Puglia. È il dramma che sconvolse il meridione d’Italia nel 1799, in seguito alla proclamazione della Repubblica Partenopea, durata dal 22 gennaio al 23 giugno 1799.
Di conseguenza si organizzò il sanguinoso travolgimento della Repubblica Giacobina, soprattutto ad opera dei “Sanfedisti”, bande di “lazzari” guidate dal cardinale Fabrizio Ruffo, che organizzò l’eterogeneo esercito denominato “Armata cristiana e reale”. Il suo compito era di scoraggiare con violente spoliazioni gli abitanti delle città repubblicane. Ruffo, conquistate Catanzaro e Crotone, puntò su Altamura coadiuvato dalla guerriglia di famosi briganti come “Fra’ Diavolo” e “Pane di grano”. Altamura fu destinata all’ epopea col famigerato “sacco”. E rileggiamo da Giovanni Bruno: « … Turi non poteva temere spedizione punitiva dai sanfedisti che si muovevano da Conversano, poiché non aveva attuato alcuna iniziativa democratica, ma quando la massa apparve presso il paese, per dirigersi verso Acquaviva, il sindaco, volendo evitare l’invasione dell’ abitato da tale torma di assassini, fu costretto a promettere il versamento di 1.200 ducati, i quali furono consegnati in Altamura al cardinale Ruffo e al commissario Battifarano … »?
La somma fu chiesta in prestito al marchese e ottenuta all’interesse dell’8%, debito che costituì motivo di tributo per i cittadini fino al 1808. Nel canovaccio, che prendeva come spunto lo scoraggiamento delle orde del cardinale Ruffo ad opera delle “Anime del Purgatorio”, si intrecciavano solidamente gli avvenimenti storici con una sorta di esorcismo collettivo (combattere la paura del brigantaggio), pronto ad agire da Largo Pozzi in posizione vantaggiosa, per disperdersi sulla strada in seguito frequentata dai trafficanti contrabbandieri, denominata “la tarantina”. Era la strada che collegava il golfo di Taranto con l’Adriatico, toccando il territorio di Gioia del Colle e di Turi nella contrada la Difesa, già contrada Selva tetra e che terminava a Mola di Bari.
Ma la chiesa cattolica mal tollerava questo spazio festivo di trasgressione extra-quotidiana sotto forma di “renovatio temporis”, in grado di rafforzare l’identità di gruppo. Il carnevale diventava un mezzo di comunicazione tra vivi e morti, mediato come era dalla nostra confraternita del Purgatorio; esso si concludeva con un simbolico banchetto, che, come agape, metaforicamente evocava il ricordo de “L’ultima cena”. La festa si concludeva in osteria, lasciando spazio al consumo sfrenato di cibo, vino e spensieratezza fino al tocco della campana dalle “Ceneri”, richiamo alla penitenza, contrapposta al periodo della “elevazione della carne”, inizio della quaresima, periodo in cui si aboliva l’uso della carne. Il Carnevale di Turi seguiva una regìa raffinatissima, capace di modellare i segnali doppi, ambivalenti. Le grossolane pitture murali rinvenute in un locale di via XX settembre, già nel 1910 adibito ad osteria sulla “via dei Pozzi”, consentono una visione per immagini dell’ argomento sin qui trattato.
Concludiamo filosoficamente con Giantommaso Gonnelli che nel 1895 scriveva: « … Vivete buoni: A Voi la scelta, seguire o questo o quegli dei personaggi istoriati: ma, dal privato ascendendo al pubblico, non sia grave a Voi la dura salvatrice parola: i popoli hanno i governi che ad essi spettano. Se vili nelle colpe, la depressione nell’interno, il disprezzo al di fuori; se grandi nelle virtù, il trionfo dovunque; e, vivi o trapassati, l’apoteosi» 8.
All’ Associazione culturale “gruppo ttt.” di Turi va il merito di aver intrapreso la rievocazione spettacolare del Carnevale storico turese, in collaborazione con il “Teatro degli stracci” di Urbino. Nel febbraio 1986 la Pro Loco presentò lo spettacolo “La Storiella di Carnevale”; ad essa va il merito di aver ripreso la tradizionale “fest de Sand’ Antuèn”, che segnava l’inizio del carnevale turese.
GIOVANNI BRUNO, Turi dall’età feudale alla metà del secolo XIX, Edizioni Resta, Bari, p. 73.
GIANTOMMASO GONNELLI, Turi e sua istoria, Valle di Pompei, edizione 1895, p. 27.
dal Quaderno 1 “sulle tracce” del CENTRO STUDI di SeC di TURI